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“Sciacallaggio emotivo”: l’altra medaglia dello sport

Prima di iniziare voglio che sia chiaro che il mio riferimento non è indirizzato ad una persona specifica bensì ad un sistema.

Lo sport è celebrazione, impresa, passione, ma troppo spesso diventa anche esposizione forzata della persona. In un’epoca in cui ogni lacrima viene zoomata, ogni espressione di sconforto analizzata in diretta, sorge un interrogativo urgente: stiamo proteggendo davvero la dignità emotiva degli atleti?

Partiamo da tre domande scomode, ma necessarie.

1️⃣ Diamo troppo peso all’emozione “a caldo”?

Interviste subito dopo una sconfitta, commenti a caldo che diventano titoli.

Tutto sembra costruito per catturare la “reazione emotiva” prima ancora della riflessione.
Ma l’emozione istantanea non è una verità assoluta, è uno specchio deformato, che riflette tensione, delusione, stanchezza. Eppure, è quella che viene incorniciata e interpretata pubblicamente.

Il rischio?
Che l’atleta venga definito da quell’attimo, e non da anni di lavoro, valori e sacrifici.

2️⃣ Le emozioni degli sportivi sono diventate contenuto da intrattenimento?

Il pianto di una sconfitta, lo sguardo perso prima di una finale… scene che diventano meme, reel, reaction.
Non c’è più spazio per il pudore emotivo, ogni fragilità viene monetizzata, viralizzata, consumata.

Ma quando l’emotività è show, cosa resta dell’autenticità?
E dove finisce il confine tra racconto sportivo e consumo della persona?

Riconoscere un atleta anche per come affronta il dolore o il fallimento, senza spettacolarizzarlo, è parte della cultura sportiva che vogliamo costruire.

3️⃣ Riusciamo a proteggere l’identità emotiva tanto quanto quella atletica?

Premiamo il record, la prestazione, il trofeo, ma quanto premiamo il coraggio di dire “sto male”?
Il riconoscimento del lavoro psicologico, del supporto mentale, del diritto all’intimità emotiva è ancora troppo debole.

Per esempio, Benedetta Pilato quando arrivò quarta per un centesimo a Parigi 2024, Benny nonostante ciò pianse di gioia.
“È stato il giorno più bello della mia vita.” Disse nell’intervista.
Ma venne attaccata pubblicamente da Elisa Di Francisca che commentò così: “Rabbrividisco, cosa ci trova di bello?”
La sua felicità venne messa in discussione, come se non fosse legittima.

Ma queste cose succedono anche negli altri sport, nel Basket per esempio, successe a Derrick Rose.

Dopo anni di infortuni devastanti, Rose segnò 50 punti in una partita NBA nel 2018. Alla fine, scoppiò in lacrime davanti ai microfoni.
Il commento fu: “Non ce la faceva più, è crollato.” E così il suo dolore nel frattempo diventò spettacolo.

Roger Federer e l’addio a Wimbledon

Nel 2008, dopo una finale epica persa contro Nadal, Federer pianse durante la premiazione.
“Non ce l’ho fatta, mi dispiace.”
Il pubblico lo applaudì, ma i media si divisero: alcuni lo celebrarono, altri lo descrissero come “fragile”.
Un momento umano, trasformato in dibattito sulla virilità sportiva.

Il rispetto non è posticipabile.

Proteggere gli atleti non vuol dire renderli meno protagonisti. Vuol dire dare loro uno spazio autentico, umano, completo. Non solo sul podio, ma anche dentro le emozioni che lo hanno reso possibile o impossibile.

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