La violenza non ha bandiere. Il silenzio è complicità.
C’è un fatto di cronaca, accaduto a Capoterra, che non può e non deve lasciarci indifferenti.
Una giovane donna di 21 anni, madre per la seconda volta da appena un mese, è stata presa a schiaffi dal proprio compagno, un uomo di 29 anni ubriaco fradicio che avrebbe poi tentato di buttarla giù dal secondo piano. Un episodio che lacera la coscienza, che urla nella sua brutalità e che ci impone di riflettere. Non solo sull’accaduto, ma su ciò che siamo diventati come società.
Come spesso accade, i più superficiali hanno subito indirizzato la loro rabbia verso la nazionalità dell’aggressore.
Ma davvero è questo il punto? La violenza ha forse un passaporto? Ha un colore della pelle o una lingua precisa? No.
La violenza è una bestia muta e vigliacca che può annidarsi ovunque, in qualsiasi cultura, religione, appartenenza geografica. Condannarla solo quando arriva da “fuori” è ipocrisia. La verità è che la violenza è sempre un fallimento, e troppo spesso è un fallimento annunciato.
Sempre oggi, tra le notizie, ce n’è un’altra che merita di essere raccontata, a Selargius, un’altra donna è stata aggredita dal proprio compagno, calci e pugni, ma in quel caso, una guardia giurata è intervenuta, si è intromessa, ha agito, ha messo in salvo la ragazza e naturalmente quel coniglio dell’aggressore è scappato.
Un gesto di civiltà, di coraggio, di umanità. Il gesto che tutti noi dovremmo essere pronti a compiere, perché questa è la differenza tra essere spettatori o protagonisti del cambiamento.
Quante volte, invece, ci voltiamo dall’altra parte? Quante volte scegliamo di non vedere, di non sentire, per non “complicarci la vita”? In quella frase che sentiamo spesso: “mi faccio gli affari miei, si nasconde la resa più profonda, quella all’indifferenza.
E l’indifferenza è complice.
È il terreno su cui l’oppressore costruisce la propria forza, perché chi tace di fronte alla violenza, la permette. E domani, quella stessa violenza che oggi ci sembra distante, potrebbe colpire noi o le persone che amiamo.
La prevenzione è l’unico modo per spezzare questa catena ma prevenire significa ascoltare, osservare, comprendere. Significa educare alla libertà e al rispetto, insegnare che l’amore non è possesso e che il controllo non è mai protezione. E significa anche avere il coraggio di denunciare, di intervenire, di parlare quando tutti tacciono. Anche solo per un sospetto, anche solo per una parola di troppo.
Perché ogni violenza ha sempre dei segnali.
E spesso, ignorarli è più grave che non vederli.
E poi servono pene serie, esemplari. Pene che non si dissolvano tra sconti e attenuanti, che non cedano alla logica perversa del buonismo che lascia per strada le vittime.
Troppe volte la giustizia è sembrata preoccuparsi più della sorte dell’aggressore che di quella di chi ha subito. E no, i braccialetti elettronici non bastano!
La storia ci insegna che spesso, non funzionano. Serve rigore. Serve fermezza. Serve dare un segnale forte, che dica chiaramente che chi alza le mani su una donna, su un bambino, su chiunque, deve risponderne fino in fondo, anche per le violenze verbali!
Siamo abituati ad accettare tutto in silenzio. Lo facciamo per paura, per abitudine, perché pensiamo che “non ci riguarda”. Ma ogni volta che non denunciamo una violenza, stiamo scegliendo da che parte stare. Il cambiamento non arriva da solo, è una scelta, una responsabilità. E chiunque abbia un minimo di coscienza sa che la paura, se non viene affrontata, finisce per proteggere il carnefice.
Ecco perché l’intervento della guardia giurata di Selargius non è solo un fatto di cronaca. È un esempio. È un invito. È la dimostrazione che si può fare la cosa giusta, e che farla non è eroismo: è umanità.