Love Life

La fede

C’è un momento in cui la vita ci pone domande che non hanno risposta. E allora, l’unico modo che abbiamo per non crollare è credere.

Credere in qualcosa, in qualcuno, in un gesto, in un’immagine, in un respiro e ieri, durante la processione del rientro di Sant’Efisio, ho sentito quel bisogno forte, netto, come un’onda che non si può fermare. E ho scelto di ascoltarlo.

Camminavamo tra le luci soffuse dopo il tramonto, sopra la cera delle candele, in un’atmosfera sospesa, quasi irreale.

I passi erano svelti, ma si interrompevano di colpo ogni volta che il cocchio si fermava, inghiottito dalla folla.

Allora, nel silenzio improvviso, si sentivano solo i respiri, le preghiere a bassa voce, gli occhi che cercavano qualcosa, gli applausi di chi meritava la stima popolare, il respiro delle anime devote, la passione più umana.

L’unica scena più forte emotivamente la vidi a Gerusalemme, nella città vecchia quando entrando nel santo sepolcro vidi le persone adagiarsi per terra chiedendo la grazia.

C’era Sergio, attaccato al cocchio, appena a sinistra, amico da sempre, anche lui ha perso qualcuno, come me, che era tutto. Nei suoi occhi la stanchezza più profonda, quella che non dorme mai, ma anche la forza misteriosa della fede che gli faceva stringere i denti e restare lì, in piedi, in silenzio, in preghiera, per 5 giorni, già 5 giorni, come i miei.

E c’era quella signora, un po’ avanti con l’età, appoggiata alla ringhiera, l’ho vista solo per un istante ma non riesco a dimenticarla. Occhi lucidi, sguardo fisso sul Santo, le mani giunte in preghiera come se stringesse un’assenza, un desiderio, una promessa fatta chissà quanto tempo fa. In quel gesto c’era tutta la vita che ancora chiede risposte.

Tra la folla spiccava un giovane prete, evidentemente amato da molti. Le persone lo salutavano con rispetto e con una devozione sincera, quasi familiare. Ad un certo punto si è staccato dal corteo e si è avvicinato a una donna in sedia a rotelle, seduta oltre le transenne, le ha sfiorato il volto con una carezza, lenta, intensa e lei aveva l’amore negli occhi. In quel gesto c’era tutta la grazia che le parole non sanno esprimere.

Poco prima d’essere travolto da quest’onda anomala sono riuscito ad avvicinarmi, ho fotografato il volto del Santo, una statua, sì, ma nei suoi occhi scolpiti ho visto la vita, la storia. Ho visto il dolore della scelta, il peso della morte accettata per non tradirci. E poi ho visto, attaccate al cocchio, minuscole fotografie, volti, storie, vite.

Forse anime che non camminano più accanto a noi, ma che ieri sera sembravano lì, presenti, come benedizioni silenziose.

E in quel momento ho pensato a lei.

A mia figlia.

Alla mia fede.

Io non ho più una fede come quella che forse avevo prima, perché è difficile credere in qualcosa che non hai mai visto.

Non riesco a rivolgere preghiere a un Dio senza che il dolore mi spezzi. Ma credo. Credo con tutto me stesso.

Solo che il mio Dio ha il volto di mia figlia.

Perché l’ho vista nascere.

L’ho vista ridere.

L’ho vista andare via.

E mentre chiudevano la bara, una lacrima le scendeva sul viso. Una sola. Come un addio, come un “papà, non piangere”, come un “ci rivedremo”.

La fede per me non è religione.

È carne. È amore. È dolore che non muore.

È lei che ogni giorno mi tiene in vita anche se non c’è.

E poi lui, che ha scelto di morire per non tradire e io che ho perso tutto. Perché la vita è un passaggio. Perché la morte non è la fine. E perché, anche quando non riusciamo più a pregare, la fede, quella vera non stereotipata, resta.

Resta nei secoli.

Resta negli occhi di chi ama.

Resta nel silenzio dei passi che seguono la speranza con il cuore che batte piano, ma che batte ancora.

Scopri di più da LOVE LIFE

Abbonati ora per continuare a leggere e avere accesso all'archivio completo.

Continua a leggere