Kidblocking: quando il genitore si mette davanti al figlio
Ci sono genitori che proteggono, che accompagnano, che osservano con discrezione, lasciando che il figlio si misuri con il mondo. E poi ci sono genitori che si mettono davanti, che si sovrappongono tra il figlio e la realtà, che parlano al posto suo, decidono al posto suo, si offendono al posto suo. Non lo seguono, lo precedono, non lo sostengono ma lo sostituiscono.
È per descrivere questa dinamica che utilizzeremo da ora in avanti la parola Kidblocking, una parola nuova per un fenomeno antico, spesso sottovalutato, a volte persino scambiato per affetto. Il termine deriva dalla fusione di kid, che in inglese significa bambino o figlio, e blocking, che indica l’atto di ostacolare, impedire, frapporsi. Ma il significato non si esaurisce nella somma delle parti. Kidblocking non è solo un gesto bensì una postura, non è solo un comportamento, è una logica relazionale. È il modo in cui alcuni genitori occupano lo spazio che dovrebbe appartenere al figlio, lo spazio dell’errore, della scelta, della parola, della relazione.
Il genitore kidblocker interviene in ogni contesto, familiare, scolastico, sportivo, artistico, sociale. Per fare degli esempi, quando molto piccoli, nel gioco anziché lasciare che il proprio bambino si esprima fa in modo che il gioco sia compiuto e che l’obiettivo sia raggiunto, se si utilizzano le costruzioni per esempio, spesso il genitore sviluppa il gioco al posto del bambino, per impazienza o fretta, il gioco deve essere portato a termine e sbagliare non è contemplato, in questo caso il genitore fa in modo che il proprio bambino non cada nell’errore, e lo fa nel tentativo di non creare in lui frustrazione, in realtà gli sta impedendo di crescere.
Quando diventa più grande parla con gli insegnanti prima che il figlio possa farlo, discute con l’allenatore per correggere una decisione, contesta un voto, un rimprovero, una regola. Si intromette nelle amicizie, nei litigi, nelle dinamiche di gruppo, non per accompagnare ma per dirigere, non per sostenere ma per controllare. E spesso lo fa con convinzione, con la certezza di agire per il bene del figlio senza accorgersi che quel bene è stato definito unilateralmente senza confronto e senza ascolto.
Il figlio in questo schema non riesce a essere un soggetto autonomo perché viene trattato come un progetto da gestire, da correggere e da dirigere. Ogni sua azione viene filtrata, ogni parola viene riformulata, ogni emozione viene interpretata secondo una logica esterna che non gli appartiene, e quando prova a sottrarsi o quando tenta di affermarsi viene percepito come ingrato, come ribelle e come immaturo. Il Kidblocking non lascia spazio all’ambiguità né alla sperimentazione, e finisce per soffocare ogni possibilità di crescita perché è una forma di iper-presenza che non accompagna ma cancella, non protegge ma sostituisce l’identità.
Ma non si tratta solo di un problema familiare. Il Kidblocking è un fenomeno sociale che si manifesta nelle scuole, nei campi sportivi, nei laboratori artistici e nei gruppi di genitori. È una dinamica che altera il rapporto tra adulti e bambini, tra educatori e famiglie, tra figli e mondo. E spesso genera conflitti, incomprensioni e frustrazioni, perché il figlio non può essere raggiunto direttamente, c’è sempre un genitore in mezzo pronto a correggere, a difendere e a negoziare.
Kidblocking significa dare un nome a questa distorsione. Significa riconoscerla, descriverla e renderla visibile, ma anche aprire uno spazio di riflessione perché il genitore kidblocker non è un nemico, non è un mostro né un caso patologico. È spesso una persona ansiosa, fragile e impaurita, una persona che ha bisogno di fiducia, di strumenti e di consapevolezza. Fiducia non solo nel figlio ma anche nella possibilità di accompagnarlo senza sostituirlo e di proteggerlo senza impedirgli di vivere.
Kidblocking è una parola che invita a ripensare il ruolo educativo, a distinguere tra presenza e occupazione, tra guida e invasione, tra cura e controllo. È una parola che difende lo spazio del figlio e il diritto a sbagliare, a scegliere nonché parlare con la propria voce.
Il diritto a essere soggetto, e non progetto.
Ogni genitore dovrebbe tenerne conto, fare un passo indietro e fare una autoanalisi per verificare se il proprio atteggiamento nei confronti dei propri figli sia quello giusto oppure no.