Haters, Stalkers, anche io ho i miei, sono come le zecche.
Capita spesso che, sotto un post pubblico di un personaggio famoso, compaia il solito esemplare da tastiera: profilo fake, nome ridicolo, foto rubata (magari di un tennista famoso o altro che riconduca all’essere un campione, giusto per sentirsi qualcuno), e via, a sparare insulti a caso, convinto di essere temuto, rispettato o chissà cosa.
In realtà, si tratta sempre della stessa tipologia umana: un nulla esistenziale travestito da guerriero digitale.
Negli ultimi tempi questa specie ha preso campo, sono ossessionati da chi ha qualcosa da dire, da chi è visto, seguito, stimato. Loro no, nessuno li cerca, nessuno li ascolta, nessuno li guarda, e allora attaccano. Usano parole come pugnali, ma sono coltelli di plastica nelle mani di chi non ha mai imparato a reggere uno sguardo nella vita reale.
Il tratto comune di questi soggetti è un cortocircuito mentale violento in cui ammirano chi prendono di mira, ne sono attratti, vorrebbero avere anche solo un decimo della sua luce. Ma quella luce li acceca, li mette davanti alla propria inadeguatezza e quindi odiano, odiano come meccanismo di difesa, come reazione rabbiosa alla propria irrilevanza, pensano, cercano, osservano, emulano…poi si rendono conto che non saranno mai all’altezza e allora attaccano.
È la rabbia dell’inferiore che non può accettare il proprio infimo posto nel mondo, pur atteggiandosi a grandi esperti di qualcosa, che non sono.
Ecco perché, paradossalmente, gli haters più accaniti sono i fan più devoti. Conoscono ogni dettaglio, non si perdono nulla, vivono in simbiosi con l’oggetto della loro ossessione, sono i primi a leggere, i primi a commentare, i primi a sbavare rabbia sotto ogni contenuto e se non fosse tutto così tossico, sarebbe persino comico.
E poi c’è l’incontro dal vivo, quando succede, a me è capitato.
Lì si dissolve la maschera, lo sguardo si fa piccolo, la postura crolla, la testa si abbassa, la bocca non trova parole, nessuna arroganza, nessuna sfida, solo una goffa e imbarazzante miscela di finta cordialità e imbarazzo infantile, come bambini colti in flagrante.
Perché dal vivo, privati dello scudo dello schermo, non resta niente, solo un’ombra del codardo che digitava con furia.
Naturalmente, provano a camuffarsi, cambiano nome, cambiano foto, provano nuovi stili, ma il bisogno di essere visti li tradisce sempre, perché in fondo non vogliono nascondersi, vogliono attenzione, bramano uno sguardo, sperano in una risposta, un qualsiasi segnale che confermi la loro esistenza, perché nella vita vera, nessuno li ha mai veramente considerati.
Non sono solo haters, sono fantasmi della mediocrità e fanno pena, ma non quella che commuove, fanno pena come un rumore fastidioso in lontananza, una zecca attaccata alla pelle del tuo cane.
Così poveri che saranno pure soddisfatti di essere stati definiti “zecche” in questo mio testo.