Dal politicamente corretto al politicamente empatico: una nuova forma di comunicazione autentica
Sto leggendo in questi giorni “Il follemente corretto” di Luca Ricolfi, un libro che offre molti spunti di riflessione sul nostro modo di comunicare, sulle parole che scegliamo e, soprattutto, sulle implicazioni che queste parole hanno nel contesto sociale odierno. Man mano che proseguo nella lettura, mi rendo conto che cresce in me una domanda fondamentale: quanto è ancora utile o davvero efficace il cosiddetto “politicamente corretto”? E, soprattutto, quanto rischia di diventare sterile e svuotato di senso se traslato in una forma ancora più estrema che Ricolfi chiama, appunto, “follemente corretto”?
Viviamo in una società in cui le parole vengono spesso pesate con estrema attenzione. Ogni frase può essere analizzata, smontata, talvolta persino fraintesa, nonostante le buone intenzioni di chi la pronuncia. In questo scenario, l’attenzione al linguaggio sembra non bastare mai, ed è proprio qui che nasce la mia perplessità: possiamo davvero pensare che il solo rispetto di una “grammatica sociale” condivisa ci metta al riparo dal rischio di offendere o di essere fraintesi?
Il “politicamente corretto”, in teoria, nasce da un’intenzione nobile: proteggere le sensibilità, promuovere l’inclusione, evitare discriminazioni. Ma in pratica, a volte si trasforma in una gabbia linguistica che ci costringe a una continua autocensura, che spesso sfocia nella paura di dire qualcosa di “sbagliato”, più che nel desiderio genuino di comunicare con rispetto.
Il punto è che la comunicazione non è fatta solo di parole. È fatta di toni, intenzioni, sguardi, pause. È fatta soprattutto della predisposizione reciproca all’ascolto. Una frase “politicamente corretta” pronunciata con sgarbo può comunque risultare offensiva. Allo stesso modo, parole semplici e dirette, se accompagnate da un’autentica gentilezza, possono toccare il cuore di chi ascolta.
Ed è proprio da questa consapevolezza che nasce il mio desiderio di provare un nuovo approccio: quello del “politicamente empatico”.
Essere politicamente empatici significa mettere al centro non solo il contenuto delle parole, ma soprattutto l’emozione che desideriamo trasmettere. Significa comunicare non solo per informare o per apparire corretti, ma per entrare in relazione con l’altro. Significa accettare che l’altro possa interpretare diversamente ciò che diciamo e avere l’umiltà di accogliere il suo punto di vista, anche quando ci sorprende o ci mette in discussione.
Non si tratta di rinnegare il valore del linguaggio inclusivo, né di giustificare le parole usate con superficialità o arroganza. Al contrario: si tratta di fare un passo in più, di andare oltre la forma per arrivare alla sostanza. Perché ogni parola può essere svuotata di senso se non è accompagnata da un’intenzione autentica. E ogni intenzione autentica, anche se imperfetta nel linguaggio, può essere percepita come un gesto di rispetto e umanità.
Da oggi voglio provare a essere politicamente empatico. Non perfetto, non impeccabile, ma autentico. Voglio continuare a scegliere con cura le parole, ma senza dimenticare che sono le emozioni e la gentilezza che le animano a fare davvero la differenza. Perché alla fine, ciò che conta davvero è questo: non comunicare solo con le parole, ma attraverso di esse arrivare al cuore delle persone.
Di questo, in fondo, si tratta: delle persone. Di come ci poniamo, di quanto siamo disposti a comprendere, ad ascoltare, a rimanere umani in mezzo a tutte le regole verbali che ci circondano. Ed è lì, in quello spazio tra il dire e il sentire, che può nascere una comunicazione davvero significativa.