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L’aspettativa: uno dei peggiori avversari dello sport giovanile.

Tante volte, nel mondo dello sport giovanile, gli adulti, siano essi genitori, allenatori o dirigenti di società, senza rendersene conto riversano nei giovani atleti aspettative enormi, spesso sproporzionate. Peggio che mai se quei ragazzi sono “figli d’arte”: in quei casi, il pubblico, i tifosi, la gente in generale si aspetta che emulino le gesta del padre o della madre, che ne ripercorrano le orme, magari superandole. È un meccanismo sottile ma potente, sicuramente inconscio, che trasforma lo sport in un palcoscenico di confronto continuo e logorante, direi distruttivo se pensiamo a questo periodo storico in cui viviamo in cui tutto è ultraveloce.

Tanti adulti guardano i giovani atleti come se fossero macchine da guerra, pronti a segnare record, a vincere tutto, a costruire carriere folgoranti. Eppure, la realtà è ben diversa: la maggior parte di questi atleti, per quanto precoci e talentuosi, smette di praticare sport agonistico altrettanto precocemente quanto lo sono stati i loro risultati. Poco importa se hanno battuto record o vinto titoli. Quello che conta, purtroppo, è che si è ormai radicata l’idea del successo a tutti i costi e immediato.

Ma perché accade tutto questo?

Nella mia ormai lunga esperienza, prima da atleta e poi da allenatore, posso affermare senza esitazioni che, molto spesso, sono gli adulti a cercare nei giovani atleti un riscatto personale. Cercano di far vivere a loro ciò che non sono riusciti a conquistare per sé e allo stesso tempo cercano di colmare i loro vuoti vivendo le esperienze sportive dei ragazzi molto più di quanto le vivano i ragazzi stessi. Ma così facendo, trasferiscono sui ragazzi un carico emotivo e psicologico enorme, che nulla ha a che fare con lo sport sano, quello che dovrebbe educare, divertire, costruire.

Ammetto che anche io, in passato, ho commesso alcuni di questi errori. Non sono sicuro che nel mio caso si trattasse della ricerca di un successo mancato a livello personale, nella mia carriera sportiva ho vinto abbastanza per potermi considerare pienamente soddisfatto, quanto piuttosto, di una forma di ansia da prestazione vissuta nel mio ruolo di allenatore. Perché non bisogna dimenticare che, tante volte, gli allenatori vivono il loro lavoro come una vera e propria missione. Sono talmente dediti, talmente coinvolti, da sentire sulle proprie spalle ogni battito, ogni respiro, ogni risultato dei loro atleti.

Ci fu un momento preciso in cui me ne resi conto. Durante un campionato italiano giovanile, uno dei miei atleti, ampiamente maggiorenne, stava per entrare in camera di chiamata per una delle gare più importanti della sua vita. Io ero accanto a lui, teso, carico, emotivamente coinvolto… quando, con semplicità e sincerità lui mi disse:

“Corra, mi stai trasmettendo ansia!”

Quelle parole furono un pugno e una carezza insieme. In quell’istante compresi quanto tenessi al percorso fatto con lui, quanto mi fosse entrato dentro il lavoro quotidiano, la preparazione, il sacrificio… ma capii anche che l’ultima cosa da trasmettere in quel momento era proprio l’ansia, quella pressione invisibile che, invece di aiutare, può diventare un peso, creando danni e vanificando ogni sacrificio fatto!

Per fortuna, ho avuto la lucidità di riconoscere quel limite e di correggermi subito. È stato un passaggio fondamentale nel mio cammino, umano prima ancora che professionale.

Un episodio che porto sempre con me riguarda la mia esperienza in Serie A2 come giocatore di pallanuoto. Nella mia squadra c’era un vicecampione mondiale russo, un portiere eccezionale, con un carisma impressionante. Un giorno, durante una chiacchierata, gli chiesi se suo figlio fosse appassionato di pallanuoto come lui. Mi rispose che no, non lo era, e che, in ogni caso, gli aveva fatto provare l’esperienza in acqua, ma non aveva mai avuto intenzione di spingerlo verso l’agonismo.

Mi disse, con grande lucidità:

Io so bene cosa vuol dire diventare un atleta di alto livello”, quindi lui sapeva cosa avrebbe dovuto affrontare suo figlio, così scelse insieme alla moglie di fargli fare un altro percorso che puntasse più a farlo diventare “uomo” che “atleta”.

Ricordo bene quel momento perché alla fine, in qualunque disciplina, la vera vittoria non è il podio, non è la medaglia, ma la persona che diventa quell’atleta. Se riusciamo a far crescere uomini e donne forti, consapevoli e sereni, allora sì, possiamo dire di aver vinto.

Lo dico sempre:

Le medaglie importanti della vita non sono quelle sul podio.

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